Rispetto ad altre arti nelle quali il rapporto tra autore e pubblico è diretto, la musica utilizza un tramite, l’esecutore: l’autore di un brano lo consegna all’interprete che lo porge all’ascoltatore. Qualche volta l’autore è anche esecutore; qualche volta l’interprete è anche ascoltatore; ma per lo più i tre ruoli sono identificati da persone diverse. Nella traduzione delle idee dell’autore intervengono non solo la prassi e il gusto dell’interprete, ma anche la mediazione strumentale che spesso consente all’esecutore di scegliere uno strumento diverso da quello suggerito o voluto dall’autore. Se pochi interpreti hanno dubitato che le Sei Sonate per il cembalo solo composte dal Sig. Don Domenico Scarlatti, Op.1 potessero essere eseguite su un moderno pianoforte, quale rapporto hanno con la volontà dell’autore le tante trascrizioni per gli organici più diversi, dalla chitarra agli archi, dall’arpa all’orchestra, dei brani del Cavalier di San Giacomo in Madrid? Né Charles Avison (1709-1770) né Francesco Geminiani (1687-1762) ebbero alcuna remora nel rimaneggiare i brani rispettivamente di Domenico Scarlatti (1685-1757) e Arcangelo Corelli (1653-1717). Avison giustifica la scelta della forma del concerto grosso con il fatto che ‘pochi compositori hanno impiegato il loro talento in questo genere dell’arte musicale’ ed entrambi gli autori non esitarono a dichiarare la loro fonte, anche perché lo Statute of Anne, primo esempio inglese di tutela del diritto d’autore per un periodo di quattordici anni rinnovabili, verrà esteso agli spartiti musicali solo nel 1777. Ancora meno remore ebbe l’editore Johann André quando nel 1799 pubblicò a Magonza tre quartetti di Wolfgang Amadeus Mozart per clarinetto e archi come Op.79: egli, che aveva acquisito il lascito musicale di Mozart dalla sua vedova nello stesso anno, nella sua edizione non fa alcuna menzione dei brani autentici del compositore di Salisburgo scomparso nel 1793 e già pubblicati qualche anno prima a Vienna da Hoffmeister e da Artaria. Nel caso dei Concerts en sextuor di Jean-Philippe Rameau, l’autenticità è dubbia anche per Camille Saint-Saëns, in veste di revisore, che tuttavia decise di pubblicarli nel 1896 con la nota: ‘sono sicuramente dell’epoca e se non vengono direttamente dal compositore, egli avrebbe potuto conoscerne l’esistenza perché scritti da un suo allievo sotto la sua supervisione ed eseguiti in sua presenza, dal momento che a quell’epoca non era uso fare copie delle parti staccate che per una esecuzione’. Sicuramente in tutti e quattro i casi si tratta di opere non prive di qualità musicali e che potrebbero rientrare di diritto nella categoria che Luciano Floridi, studioso di filosofia dell’informazione e del modo in cui la tecnologia e l’intelligenza artificiale hanno cambiato e stanno cambiando le nostre vite, definisce ectipi: copie ‘autentiche’ per così dire, calchi, con una relazione molto forte con l’originale. Solo con la conoscenza e l’ascolto di questi brani è possibile comprendere quanto avremmo perso, e quanto invece abbiamo guadagnato.
Luca Vonella